Venezia70: Joe, la Recensione del film con Nicolas Cage

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Che lo scintillante sogno americano fatto di prosperità, di famiglie felici, catene di montaggio e opportunità, sia morto e sepolto da decenni è una delle poche certezze di questo secolo. Se ci si sposta poi in Texas, zoccolo duro e arido degli Stati Uniti, l’evidenza si fa palpabile, materiale; il degrado si incontra lungo le strade, la tensione si respira nell’aria impiastricciata di sabbia, le armi da fuoco dormono nei cassetti dei comodini, risvegliate ad ogni sussulto d’odio. David Gordon Green si sporca le mani di fango girando un film crudo, diretto, dai contenuti grezzi come petrolio immacolato, e raccontando la disperazione di una terra che ha perso il senso dell’orizzonte e della bellezza (ricordando da vicino il recente Killer Joe del Leone d’Oro alla Carriera 2013 William Friedkin, privo però della medesima brutale ironia). Un lembo di spazio in cui la giustizia serpeggia fra le mani degli uomini e non della legge, una anarchia che distrugge e annienta anche lo spirito più puro.

Nicolas Cage, gigantesco nel suo ruolo, incarna così il rimpianto, le occasioni di una vita sfumate, la purezza insanguinata in cerca di redenzione; lungo il binario parallelo il suo alter ego più giovane, il promettente Tye Sheridan, strappato via dalle grinfie della violenza e da un padre pieno di solo alcool. Come alberi sradicati dal terreno che lasciano posto a nuovi arbusti, i due personaggi si cercano, si completano, si fondono, rendendo materiale il concetto disperanza. Una buona scrittura dal ritmo sostenuto, una grande fotografia e prove attoriali sopra la media si amalgamano insieme grazie ad una regia corposa e impeccabile, che regala al pubblico un’opera intensa e buonista senza edulcorare i contenuti violenti – decisamente necessari al fine del contesto emotivo e narrativo. Una perla raffinata in superficie, piena però di ombre e graffi profondi.

L’ottima direzione e le interpretazioni dei protagonisti, partendo da Nicolas Cage sino agli interpreti secondari. La fotografia e l’ottima scrittura.
Il soggetto, pur essendo ben sviuppato, non è estremamente originale, alcune parti inoltre risultano eccessivamente didascaliche. Il ritmo frena durante la seconda parte.
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