La natura incontaminata riporta fin troppo spesso l’uomo alla sua condizione primitiva di animale, e ne facilita l’abbandono verso gli atteggiamenti più ferini, bestiali, privi di qualsiasi tipo di freno inibitorio a cui è generalmente costretto nella società civile. Coperti dalla boscaglia ed inglobati all’interno di uno specchio d’acqua accarezzato dal vento, i corpi nudi dei protagonisti di Alain Giraudie non provano vergogna né pudore, si abbandonano alle loro pulsioni più profonde senza nemmeno chiamarsi per nome: seguiti da una regia che non ha paura di raccontare i dettagli e segue fedelmente il realismo narrativo, i protagonisti si abbandonano alla noncuranza dei sentimenti, che nella sua accezione più estrema porta al male stesso. Fino ad arrivare al classico binomio tra eros e thanatos, erotismo e morte, che all’interno della narrazione si intrecciano portando il protagonista sulla via della perdizione sotto ogni punto di vista.
Attraverso una narrazione solo apparentemente semplicistica Giraudie, dopo aver entusiasmato – e scandalizzato – il 66esimo Festival di Cannes, dipinge un thriller venato di noir dal sapore d’altri tempi, unendolo ad una sfrontatezza fin troppo facile da giudicare esagerata e vergognosa. All’interno del microcosmo naturale ed irreale creato dal regista, è necessario guardare oltre i corpi nudi e le scene di sesso esplicito e comprendere l’ossessione amorosa messa in scena da un ottimo Pierre Deladonchamps, accompagnata dalla magistrale fotografia di Claire Mathon, che all’interno di un ambiente senza freni arriva ad abbandonarsi al male e a cercare, nonostante tutto, una via verso la luce. Una sceneggiatura particolare, che mette in scena il mondo omosessuale senza la paura di raccontarne alcuni stereotipi e riuscendo, pur con alcune parti eccessivamente pedanti, a disegnare un ritratto realistico e rispettoso.