Trasferire sullo schermo quella che potrebbe essere senza problemi una pièce teatrale e caricarla tutta sulle possenti spalle di un maestoso Tom Hardy. Locke vanta una sceneggiatura serrata, intelligente, appassionante come se ne trovano poche oggi. L’intera vicenda, di circa un’ora e mezza di durata, si svolge nell’abitacolo di un’auto: unico, incredibile protagonista è Hardy, che sfrutta appieno la potenza dello script per recitare in maniera impeccabile, adulta, misurata ed estremamente emozionante. L’empatia è immediata, mentre assistiamo al silente crollo emotivo di un uomo che sente tutto il suo mondo collassare attorno a lui, attraverso il vivavoce del suo telefonino. In due ore di viaggio si conosce la sua storia, si indaga la sua psiche, si intuiscono le sue umane fragilità; si prova, infine, pietà per quest’uomo che costruisce edifici e che si aggrappa disperatamente al suo lavoro, al suo solido cemento, per non crollare sotto al peso di un suo errore, un solo errore fatto in una vita di efficienza.
Nonostante la monotonia dell’ambientazione e la mancanza di altri personaggi (se non come voci al telefono), la regia riesce a sfuggire alla noia, pur abbandonandosi un po’ troppo spesso a sfocate inquadrature di luci stradali. Il montaggio è quasi inesistente: sembra che non si abbia il coraggio di tagliare i soliloqui di Hardy, tanto sono intensi; così il risultato sembra quasi un susseguirsi di piani sequenza. Il riferimento al linguaggio teatrale (e alle sue strutture narrative) è palese, anche grazie a una veloce menzione a Beckett. Locke è uno di quei film che ci ricordano, in modo pacato e umile, un’importante verità: con una sceneggiatura di ferro e un grandissimo, giovane attore, si può fare un film intero nell’abitacolo di una macchina. Un vero peccato che non sia in concorso.