Nella storia di Pier Paolo Pasolini hanno sempre convissuto tristezza profonda e meraviglia, ombre oscure e scintille di luce. La sua grande capacità di osservare la crudezza del mondo, e raccontarla in forma assoluta nella sua arte – sia essa cinematografica o letteraria – lo ha reso uno dei più grandi e importanti intellettuali del ventesimo secolo, che rappresenta tuttora una ferita scoperta nella cultura del nostro Paese. Una cicatrice dolorosa a causa dell’orrenda e violenta morte che lo ha strappato via dall’esistenza il 2 novembre del 1975. Su grande schermo il suo atroce delitto è stato già raccontato alla perfezione da Marco Tullio Giordana, che in un’opera commovente a cavallo fra finzione e documentario spiega le dimensioni del dramma umano che una simile perdita è capace di provocare.
Oggi, alla luce della 71a Mostra Internazionale di Venezia, Abel Ferrara prova a dipingere un nuovo ritratto del poeta e regista italiano, raccogliendo poche confuse idee e mettendo in scena parte di una sua sceneggiatura incompiuta e solo immaginata. Pasolini è infatti una accozzaglia di blasfemie tecniche e contenutistiche, realizzate esteticamente in modo abbozzato e per nulla sufficiente. Volendo sorvolare sulla pessima fattura degli effetti visivi e la fotografia eccessivamente buia, che non bada per nulla ai contrasti delle atmosfere e lascia troppe cose inghiottite dal nero, si va a sbattere contro una rappresentazione dell’omosessualità che ha del criminale. Si insinua sin dalle prime battute l’idea di una sessualità soltanto violenta, dunque artificiale, fino a sfociare in un’orgia fastidiosa e urlata. Anche quando il racconto prende la strada immaginaria del progetto irrealizzato, si resta in ogni caso nel regno del fastidio: la strana coppia Davoli-Scamarcio risulta completamente male assortita, seguita inoltre da una stella cometa che indica una strada dal dubbio significato.
La fantasia si mescola a scene di vita quotidiana senza troppo spessore, con un Valerio Mastandrea invisibile e un Willem Dafoe spaesato e lontano dalla parte. Pier Paolo Pasolini era un uomo spesso nervoso, dalla parlantina veloce, e gracile nel fisico; Dafoe ha un corpo piuttosto possente e snocciola una parola ogni due minuti. Ad aggravare la situazione la scellerata scelta di fondere più lingue non solo nello stesso film, ma anche nelle stesse scene. Quentin Tarantino in Bastardi Senza Gloria salta da una lingua all’altra poiché i suoi personaggi vengono da tutta Europa, è dunque una scelta dovuta e funzionale, Ferrara alterna parole italiane ad altre inglesi nel medesimo take, e viceversa. Mette in bocca ai suoi attori lingue e dialetti che non gli appartengono, ottenendo un risultato disturbante e di infima qualità. Il maggiore problema è però, graffiando il fondo del barile, l’assoluta mancanza di anima.
Lo spirito pasoliniano non aleggia in un nessun momento, non cattura e riempie nessuna scena, esclusa una piccola intervista che nasce e muore in pochi minuti. Attraverso le immagini non viene filtrato nessun messaggio esplicito, tanto che l’intero progetto viene avvolto da una coltre di inutilità. Si dimenticano le borgate, la solitudine, la passione. Le idee rivoluzionarie e dure restano impresse nei libri e sulle pellicole, l’epilogo ricalca le versioni ufficiali, le poche novità originali generano prurito e vergogna. L’unica nota positiva riguarda la colonna sonora, che ripropone brani del Decameron e di altre opere del regista bolognese. Pier Paolo Pasolini muore oggi per l’ennesima volta.