Silence: la recensione del nuovo film di Martin Scorsese

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La ricerca della verità, della conoscenza ultima, passa sempre attraverso il dolore e il supplizio. Il più grande di tutti è di certo quello causato dalla paura di scoprire di essere soli; il culto quindi, la religione e la fede (sotto tutti i suoi molteplici aspetti) si rivelano per molti quella salvezza che separa dalla pazzia. Lo sa bene il protagonista di Silence, interpretato da un Andrew Garfield maturo e ostinato, che compiendo il suo viaggio/missione di crescita dovrà affrontare la verità prima citata, quella più dura, in grado di annichilire anche il più saldo tra i fedeli: il timore che Dio non ci ascolti affatto. Eppure di silenzio nell’ultimo film di Martin Scorsese ne troviamo poco. Tra il fruscio del vento e il suono di un grillo comprendiamo come il silenzio non sia altro che assenza di suono, quindi di morte, e in un mondo così turbolento e vivo come il Giappone, con i suoi mari in tempesta e le sue possenti foreste, parlare di morte (intesa come vero e proprio annullamento) è quanto mai paradossale. Dove possiamo trovare allora la risposta divina che tanto cerchiamo?

Il film, nella classica tradizione ‘scorsesiana’, si appresta ad essere interpretato sotto diverse chiavi di lettura e sta solo allo spettatore capire quali, per coglierle e farle proprie. Il suo cinema, mai stato così solido eppure paradossalmente lontano dal suo stile (sebbene alcune scelte stilistiche siano sfacciatamente ridondanti, ma non è certo un male) si scontra e si unisce con quello orientale, vediamo infatti il fango di Akira Kurosawa e la sacralità del cinema di Yasujirō Ozu. La regia alterna l’angustia delle costruzioni giapponesi alla spaventosa grandezza della natura che li circonda, quasi a volerci mostrare il vero protagonista della pellicola e di come l’uomo se ne possa sentire prigioniero e, di conseguenza, come voglia scappare da essa, almeno spiritualmente. Perché ricordiamoci sempre che l’uomo del Seicento non era mai con la natura, ma superiore ad essa, quasi in senso trascendentale. Che sia proprio questo il vero dilemma? Il classico rapporto uomo/natura? Certo, ma c’è di più.

Se nell’Ultima tentazione di Cristo Scorsese voleva mostrarci la carne e la vera genialità del cristianesimo (il concetto di uomo rivelato a noi, morto e sepolto) in Silence scopriamo cosa è andato storto nella storia. La colonizzazione forzata (economica e soprattutto culturale) avrebbe rischiato di far implodere un paese che non concepisce nemmeno, linguisticamente parlando, l’idea di Dio (nel senso occidentale del termine). Ed è qui che forse arriva la vera freccia scoccata dal regista: Silence, al contrario del titolo, parla di parole, parla di lingua, di idiomi diversi, di simboli sacri e profani. Parla di una modifica millenaria del linguaggio, la religione, che non può attaccare ogni tipo di popolazione, ma solo quella più adatta a contenerla, reggerla. Silence non è un film di colonizzatori di popoli, ma di colonizzati della mente. Scorsese di certo non avrà firmato il suo capolavoro (e spesso leggeremo questa parola riguardo al film) ma ci mostra uno spiraglio di struggente bellezza e di sincera devozione verso l’immagine cinematografica, sempre sacra perché non si preoccupa di raccontare una verità o una menzogna, un po’ come la religione. L’importante è avere fede.

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