White Helmets: la recensione del corto documentario Netflix sugli eroi siriani

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Un piccolo gioiello dell’enorme tesoro audiovisivo Netflix è il corto documentario White Helmets, che il 26 febbraio si contenderà l’Oscar per la sua categoria.

Il viaggio attraverso il quale si articola l’opera è quello dell’organizzazione dei Caschi Bianchi, un gruppo di volontari (quasi 2900) che interviene per salvare le vittime dei bombardamenti in Siria. In particolare, il film riporta le esperienze di tre suoi componenti, alternando riprese amatoriali, video effettuati sul luogo e interviste, il cui suono accompagna le drammatiche immagini. Orlando Von Einsiedel (già nominato all’Oscar per il miglior documentario per Virunga) racconta la storia e l’esistenza di persone normali che, strappate alle loro vite ordinarie, hanno deciso di combattere la loro battaglia personale contro un nemico ben preciso: la morte. White Helmets racconta gli orrori della guerra in Siria mostrando i veri eroi e sottolineando, in maniera silenziosa, i veri colpevoli di più di 400 000 vittime: uomini normali, che siano russi, turchi o appartenenti all’ISIS, marionette invisibili al comando di caccia.

Lo stupore scontato che suscita l’opera viene trasmesso dalle scioccanti sequenze durante le azioni di salvataggio dei Caschi Bianchi, in cui ogni secondo è fondamentale. Oltre a questo, il film spiega anche come tutto ciò non sia solo frutto di un istinto, raccontando l’organizzazione e il corso d’addestramento, da sostenere in Turchia prima di entrare in azione. È qui che ci si rende conto delle paure, ma soprattutto della speranza, che muovono persone comuni, alle quali non sarebbe richiesto nulla. Persone che hanno capito che per servire la propria gente è meglio ”salvare un’anima, invece di prenderla”, come afferma Mohammed, ex combattente.

È negli occhi di questi ordinari eroi, sempre rivolti verso il cielo, in attesa del prossimo bombardamento, che si potrebbe sintetizzare il lavoro di Von Einsiedel, che riesce a creare equilibrio tra le sequenze “live” e le riprese ricostruite, dove lo spazio vuoto dell’inquadratura, che isola i soggetti che camminano, viene riempito dalle macerie e dai palazzi distrutti di Aleppo, e riesce, soprattutto, a lanciare un grido di denuncia riguardo la Siria (dove si sta consumando un vero e proprio genocidio) e a trasmettere la speranza nei cuori dei civili siriani, nonostante la violenza e la paura, soggetti irrappresentabili, ma costantemente presenti per tutti i 40 minuti.

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