Life – Non oltrepassare il limite: la recensione del film con Jake Gyllenhaal e Ryan Reynolds

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C’è vita oltre il pianeta Terra. Al cinema, l’abbiamo vista in forma di deriva esistenziale (i viaggi di InterstellarGravity e Moon), di minaccia (AlienPrometheus), di mezzo di comunicazione pacifico (come in Arrival di Denis Villeneuve); gli alieni “altri” da noi esistono, ed esiste uno spazio inesplorato sempre più speculare al nostro che gli uomini bramano di conquistare spinti dalla sete di conoscenza. Per l’equipaggio della Stazione Internazionale che orbita intorno a Marte, il rilevamento di un campione cellulare porta ad un’epocale scoperta: l’organismo risponde agli stimoli e cresce velocemente. È intelligente, ma anche aggressivo, un essere autonomo che sfugge al controllo del potere superiore; in questo caso, gli astronauti in missione.

Contro ogni previsione, Life – Non oltrepassare il limite funziona, rubando idee ma facendole proprie (la trama ricorda in maniera evidente Alien) con una messa in scena esemplare architettata da un regista che sa muovere la macchina da presa: Daniel Espinosa, coadiuvato dalla fotografia di Seamus McGarvey, gestisce perfettamente la tensione annidandosi nel ritmo classico del thriller con piani sequenza (uno girato all’inizio del film, non sarà geniale ma rimane comunque ammirevole) e soluzioni visive davvero piacevoli. Scorrono via in scioltezza 103 minuti di azione claustrofobica e parentesi sentimentali abbastanza sciocche, lontani dalla sublimazione di Alien o dalla poesia di Gravity, eppure Life – Non oltrepassare il limite onora, quasi a sorpresa, la tradizione fantascientifica – e drammatica – confezionando un prodotto di buonissima fattura. Da vedere anche solo per il plot twist finale.

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