Adattare per il grande pubblico un’opera come quella del lungometraggio del ‘95 Mamoru Oshii, l’omonimo Ghost in the Shell, è di per se rischioso, parliamo infatti di uno dei pilastri della narrativa cyberpunk adorato da un tipo di fanbase che sicuramente parte da aspettative alte. Il rischio di fallire, sia fotocopiando il prodotto originale sia discostandosi troppo da esso, è decisamente dietro l’angolo, non a caso le sole news che son girate riguardo il film hanno riguardato le futili polemiche di whitewashing sul casting di Scarlett Johansson, sterili anche a detta dello stesso Mamoru Oshii.
Rupert Sanders imbarca una via di mezzo: rimandi visivi all’opera originale ma con una trama più facile da gestire, che attraverso il cervello umano nel corpo sintetico del Maggiore vorrebbe parlarci dei problemi del non sentirsi umani e fuori posto nel mondo, in un film action di spionaggio. Realizzare un progetto del genere in maniera così “semplice” è quanto di più sbagliato si potesse fare: quello che serviva ad un prodotto come Ghost in The Shell era proprio coraggio, uore, una idea alla quale aggrapparsi.
Rupert Sanders è però più un pilota automatico che un regista, abbraccia uno stile che provando ad essere datato (figlio di un tipo di cultura nata proprio negli anni ’90 dall’opera originale) diventa una versione povera di quello che erano i fratelli Wachowski, con qualche spunto preso da Robocop ed un uso fin troppo esagerato della slow motion. La fortuna de pubblico è avere tra le mani un film che dura meno di due ore, dove non essendoci tempo per lungaggini – se non altro nella sua banalità – non ci si annoia, vuoi per un ambito visivo mastodontico curato nei minimi dettagli dalla sempre più presente Weta, vuoi per un cast che riesce comunque a dare la giusta faccia ai personaggi.
Se non altro, Ghost in The Shell è una festa per gli occhi, brilla di un tipo di bellezza e fascinazione che non può non lasciare ammaliati e che non merita di essere offuscata dalle evidenti lacune del resto dell’opera. Un film che vorrebbe parlare della supremazia dell’umano sul sintetico, ma una scarsa visione originale di fondo lo rendono niente più che un bellissimo corpo senza anima.