Power Rangers: la recensione del film di Dean Israelite

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Angel Grove, piccola cittadina della periferia americana. Intorno a questa il nulla: fisico, perché la natura arida sembra aver inghiottito il paesaggio (sabbia, rocce e una piccola macchia verde), e mentale, dal momento che qui i ragazzi non hanno prospettive di vita né svaghi, salvo poi commettere qualche atto vandalico a scuola per distrarsi dalla noia. La desolazione generazionale caratterizza visivamente l’inizio di Power Rangers, il film che riporta sulla scena cinematografica gli eroi del noto franchise basato sulla serie giapponese Super Sentai e qui diretto da Dean Israelite; il regista, sudafricano ma australiano d’adozione, aveva esordito nel 2015 con Project Almanac, altra pellicola ambientata nell’universo adolescenziale prodotta da un certo Michael Bay.

Ora, al netto dei pregiudizi e delle basse aspettative, c’è da dire che Israelite sa come mettere insieme una macchina d’intrattenimento, e lo dimostra fin da quella sequenza in apertura girata con un piano sequenza all’interno di un’automobile. Sbalorditiva. E poco importano le inquadrature sbilenche, il montaggio raffazzonato, la musica hip hop, la banalità narrativa: Power Rangers funziona lì dove altri blockbuster invece falliscono, nel disimpegno consapevole, nel non cercare le vette dell’indimenticabile ma impegnandosi per essere fruito dal suo pubblico nella maniera più semplice e immediata possibile. Inoltre, e questo rappresenta la vera sorpresa, il film rivela un’anima sentimentale devota al cinema teen degli anni Ottanta, con chiari riferimenti ad un’immaginario costruito sulla rivincita degli emarginati (Stand By Me) e sulle categorie sociali che regolano l’esperienza scolastica (Breakfast Club).

Così, spinto dal carisma dei cinque giovani protagonisti e dalla forte credibilità di una villain donna (e che donna, Elizabeth Banks perfetta nel ruolo di Rita Repulsa), Power Rangers si avvia verso un epilogo più spaccone alla pari di un Transformers, senza perdere il senso del gioco e dell’intrattenimento. Gli sfigati, almeno su grande schermo, vincono ancora.

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