Le Cose che Verranno: la recensione del film con Isabelle Huppert

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Le Cose che Verranno è la traduzione italiana del film L’Avenir scritto e diretto da Mia Hansen-Løve (Un amore di gioventù, Eden). Protagonista di questa piccola perla drammatica è Isabelle Huppert, padrona indiscussa del profilmico in ogni singola scena. Vincitore dell’Orso d’argento per la miglior regia, L’Avenir riconferma la sensibilità e la complessità creativa della regista francese, fautrice di una dimensione esistenzialista ed intellettuale all’insegna della riflessione filosofica.

Nathalie è un’insegnante di filosofia impegnata nella missione di insegnare ai suoi allievi un metodo di pensiero dedito al dibattito, libero dalle illusioni contemporanee e rivoluzionarie. Partendo da Il Contratto Sociale di Jean-Jacques Rousseau, la caratterizzazione di Nathalie attraversa un percorso scandito da citazioni testuali, parti integranti dell’evoluzione stessa dello script. Giocando su lassi temporali non indifferenti, la regista ci presenta una donna appassionata ed isolata nella sua sublimazione intellettuale, madre di due figli e moglie di un uomo altrettanto dedicato allo studio della sua materia maestra. “Le cose che verranno” si riferisce ad una condizione iniziale destinata a mutare nel tempo come tutte le cose, un presupposto a sua volta metaforico, basato sull’incertezza della vita, perno dell’intera struttura drammaturgica. 

Sarebbe un errore descrivere la posizione sociale di Nathalie come un rifugio borghese dall’impegno intellettuale, eppure non sarebbe altrettanto difficile individuare nel suo ex allievo Fabien una sorta di alter ego filosofico più onesto, dedito alla scrittura, ma anche all’impegno collettivo, politico, ostentatore della sua libertà fisica e spirituale. L’Avenir risolve invece questo dubbio nel donare a Nathalie un’integrità unica, capace di rendersi autonoma e sincera nel suo percorso attraverso la separazione, la morte e l’abbandono. L’amore per la filosofia, come abilmente ci mostra la regista sin dalla prima inquadratura, è capace di colmare ogni vuoto e rimarginare ogni ferita umana. Attraverso Platone affronta il lutto, mentre Rousseau le è di conforto nelle sue scelte devote alla salvaguardia di se stessa e della sua famiglia.

La forza di questa storia sta nella semplicità dell’assetto visivo, nella complessità dei suoi due protagonisti, e nel pozzo profondo di filosofia da cui si attingere per fare da collante alle debolezze umane. La complicità intellettuale nei confronti del giovane Fabien non sarà il luogo dove Nathalie scapperà per non soffrire a causa della vita e della sua imprevedibilità. Accolta nella fattoria dove lui ha costruito un paradiso personale e la sua tana per scrivere di filosofia, Nathalie respira quell’aria bohemien da cui nascono le idee, i sogni, i grandi progetti lontani dalle strutture del potere ed ingenuamente libere dalla politica. Nonostante questo, il suo personaggio rimane sincero all’occhio dello spettatore pronto a difendere la sua integrità, “avvelenato” dalla prima citazione del film dedicata agli dei e agli uomini (incapaci di una reale democrazia sulla terra, al contrario degli dei).

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