Ritratto di famiglia con tempesta: la recensione del film di Kore-eda Hirokazu

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Ryota insegue ancora il sogno, e la giovanile promessa, di essere uno scrittore di successo, e nel frattempo si barcamena tra indagini private, tradimenti coniugali e ricatti. Schiacciato da un passato fallimentare – come figlio, uomo, padre – Ryota continua a inseguire la chimera di recuperare la felicità familiare da tempo persa con l’ex moglie Kyoko e il figlio Shingo. Forse l’arrivo di una tempesta e la convivenza forzata a casa di Yoshiko, l’anziana madre di Ryota, riuscirà a portare a galla e a guarire le ferite, e ricucire i rapporti. Sembra un gioco di incastri nello stile che ricorda e allude a un raffinato mistery, questo Ritratto di famiglia con tempesta del regista Kore-eda Hirokazu. Eppure, sfogliando gli strati narrativi – l’investigatore scalcinato, gli indizi di una tempesta in arrivo, la ricerca di un affetto smarrito -, tutto riporta ancora all’abile sensibilità e predilezione dell’autore giapponese per la composizione di dipinti emotivi che viaggiano sui rapporti affettivi.

I tempi si dilatano, gli spazi si stringono sui corpi, i volti, gli occhi sgranati di Ryota, l’agilità di Yoshiko, la dolcezza speranzosa di Shingo. Il mondo esterno a un certo punto si chiude sui personaggi, flettendosi sulle sfumature emozionali, sui dettagli immediati, vicini, lascia fuori scena le variazioni sul tema (noir), i temporeggiamenti narrativi, perfino l’ingombrante quanto fantasmagorico spettro di un tifone continuamente annunciato e atteso. È qui che finalmente Ritratto di famiglia con tempesta sembra arrivare alla quadratura del cerchio, scartando il superfluo, (ri)trovando quel senso di familiarità, di schiettezza e semplicità di un autore che sa bene cosa vuole dire e quali dettagli osservare.

Di nuovo, i labirinti invisibili e impalpabili delle relazioni umane diventano materia empirica, tratto visibile, dimostrabile, stratificabile. Ancora, sono gli equilibri squilibrati all’interno di un nucleo familiare a venire a galla irresistibilmente fino a toccare, di nuovo, il tema essenziale della paternità. Nei continui giri a vuoto di Ryota, nel suo essere inaffidabile e nelle promesse di gioventù mancate, la via per la felicità e per l’ammissione all’età adulta passa per il volto del figlio. Per la comprensione di un rapporto che è una costruzione continua, presa di coscienza e scelta di responsabilità (e non si può non pensare a Father and Son del 2013), che ammette sbagli purché vi siano altrettanti tentativi di redenzione.

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