Allo scoppio dell’egemonia postmoderna degli anni ’80 era chiaro che il concetto di originalità avrebbe trovato sempre meno posto nell’arte. C’è chi ha preso dunque la strada di riutilizzare tutto un certo immaginario visivo del passato e riplasmarlo a suo piacimento (leggi Quentin Tarantino) e chi invece ha scelto di arrendersi all’irripetibilità dello straordinario ed alla morte di qualsiasi ideologia secondo l’inno niente ha più senso. Questo è Jim Jarmusch che ha fatto del quotidiano la cifra stilistica di un cinema privo di picchi di tensione e per questo così estremamente affascinante. Non ci sono vertici nella sua carriera, solo tante piccole storie circolari che ripercorrono incessantemente la stessa traiettoria. Il climax di questo manifesto artistico è stato reso del tutto esplicito negli ultimi due film dove torna in maniera ossessiva la figura del cerchio che sottolinea un profondo lavoro sul tempo portato avanti in anni di filmografia.
Per i vampiri (gli eterni non morti, dunque) di Solo gli amanti sopravvivono lo scorrere delle lancette assume senso solo quando cambiano le condizioni esterne di un mondo che ha perso tutta la sua naturalezza, per Paterson abitante di Paterson la sua ripetitiva vita è un compromesso che ha accettato in cambio di qualche attimo irripetibile di poesia. Intanto i protagonisti continuano a disegnare cerchi come quelli segnati da un giradischi o quelli dipinti su una tenda, sapendo che alla fine questi diventeranno sempre più piccoli fino a concentrarsi in un unico punto che va a rappresentare l’essenza di ogni lavoro del regista. L’estremo (e sottovalutato) The Limits of Control ne è la prova: il protagonista viaggia ripetendo sempre le stesse azioni, incontrando persone diverse ma ognuna uguale a quella precedente, ordinando sempre due caffè espresso in due tazza (circolari) separate. Apparentemente non c’è una scopo nel suo vagare, ma alla fine la conclusione arriva ricostituendo tutto il senso del viaggio.
Quello che avviene sullo schermo è quindi una rivalutazione della noia, una stato senza il quale non sarebbe possibile apprezzare le varianti. E sono proprio queste ad essere fondamentali nei film di Jarmusch dove al centro si trova sempre un percorso di quotidianità dove niente ha più senso. Quando però la stasi si rompe, quando si riesce ad intravedere l’essenza della vita i personaggi rinascono come il protagonista di Broken Flowers acceso dal senso di paternità.
Questa è un’idea di cinema che diventa estremamente rivoluzionaria in un clima dove, ancora, l’intrattenimento sembra l’unico caposaldo indistruttibile di una macchina produttiva che il regista fieramente indipendente ha sempre cercato di sfidare. Un caso (o forse no) che negli ultimi due film, tra i continui riferimenti culturali usati dal regista, venga inquadrata la prima edizione di Infinite Jest di David Foster Wallace che in letteratura provò la stessa sfida dell’abbattimento dell’intrattenimento, vero ed unico pericolo della società dove tutto è lineare. Jim Jarmush ha invece scelto il cerchio, la noia del tempo che passa e la poesia dei suoi personaggi. Una lunga storia d’amore con la lentezza.