The Hateful Eight: la recensione del film di Tarantino

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La pazienza è la principale virtù dei predatori da imboscata, di quegli animali che, all’inseguimento e alla caccia diretta, scelgono di aspettare, sicuri del loro camuffamento, che sia la preda a venirgli incontro, attendendo così il momento perfetto per attaccare. Tarantino, in The Hateful Eight, ci guida con lentezza al raggiungimento di quell’inevitabile momento propizio rinchiudendo, a causa di una tempesta di neve, otto bastardi ben poco gloriosi sotto lo stesso tetto. Dimenticate il buono, nel claustrofobico rifugio di Minnie tutti sono “brutti e cattivi”, dal cacciatore di taglie (Kurt Russell), alla prigioniera Daisy Domergue (Jennifer Jason Leigh), al nuovo sceriffo (Walton Goggins), al Messicano (Demian Bichir), all’inglese Oswaldo Mobray (Tim Roth) al mandriano (Michael Madsen), fino al Confederano razzista (Bruce Dern) e l’ex Maggiore Marquis Warren (Samuel L. Jackson). Lo studio di carattere che Tarantino mette in scena è una bomba ad orologeria pronta ad esplodere;  una bomba alimentata per buona parte della pellicola più da una violenza verbale che fisica, da battute al vetriolo e pungenti monologhi,  in un crescere di tensione che sfrutta cameratismo e ostilità e la cui unica morale di fondo si riassume in homo homini lupi. Anche la sinistra ed avvolgente colonna sonora di Ennio Morricone, presente sin dall’inizio dell’opera, contribuisce a creare un sento di anticipazione, ci ricorda che la violenza splatter a cui il regista ci ha abituato è solo rinviata e che l’odore del sangue è già nell’aria. Questo, lo sanno anche i personaggi che si scrutano e si sobillano a vicenda, che si lasciano andare a congetture in quello che sembra a tratti un romanzo di Agata Christie dai toni pulp, con un Samuel L. Jackson che si  concede un monologo alla Hercule Poirot, ma decisamente più colorito.

La già anticonvenzionale scelta di girare in Ultra Panavision 70mm, un formato cinematografico usato negli anni ’50 e ’60, risulta ancora più anticonformista considerando che la maggior parte del film è ambientata in un unico interno. Il sorpassato formato, utilizzato in passato principalmente per esaltare esterni, con il suo lungo sguardo avvolgente, allarga la visuale dello spettatore e permette di osservare ogni personaggio in scena, studiandone il volto per provare a cogliere la verità dietro al travestimento. Il cinema può usare i suoi mezzi e attingere dalla realtà per riprodurla o per crearla. Quentin Tarantino predilige ancora una volta la seconda opzione, realizzando un film che può essere definito solo “tarantiniano”. Il regista si prende le sue libertà: inizia con un ouverture, prevede un intervallo, si inserisce nella narrazione e, ovviamente, se ne infischia del politically correct. Dialoghi incendiari e volgari, violenza sanguinolenta, storia non lineare, divisione in capitoli e un macabro umorismo : tutto quello che ha fatto amare il regista e sceneggiatore americano ai suoi ammiratori torna in The Hateful Eight in tutta la sua forza.  Queste, però, sono le stesse ragioni per le quali il film, probabilmente meno commerciale di Django Unchained, potrebbe non riscuotere il consenso di una certa parte del pubblico. Ma si sa, non è certo l’approvazione ciò che cerca Tarantino.

Gli scenari del Wyoming illuminati dalla sapiente fotografia di Robert Richardson e l’attenzione ai minimi dettagli dello scenografo Yohei Taneda e dalla costumista Courtney Hoffman aggiungono un’ulteriore potenza visiva all’opera, retta da un azzeccato cast composto da attori feticci del regista e new entry, perfetti nelle loro performance.

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