Whiplash: l’inno contro la mediocrità di Damien Chazelle

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Quando uscì Whiplash pochi sottolinearono che il film era stato il vincitore del Sundance di quell’anno. Il perché è molto semplice: Whiplash non sembra un film indipendente. Di solito i film di questa categoria si riconoscono per il basso budget (quindi minima qualità dei settori tecnici) e la predilezione per storie quotidiane e semplici che si prestano bene ad essere messe in scena con lunghi dialoghi o comunque con scene poco articolate da girare. Il film di Damien Chazelle non è niente di tutto questo. Il regista, al suo secondo lungometraggio, sceglie di puntare in alto ingaggiando ottimi attori (Miles Teller e J.K. Simmons rimangono la coppia cinematografica migliore del 2014), affidandosi prevalentemente ad un montaggio serrato e ad una storia che implicava non pochi rischi. A diversi anni dall’uscita del film sembra infatti che il regista abbia voluto lanciare una provocazione nel raccontare la scalata musicale di un giovane batterista per mettere in luce delle domande.

Dov’è il limite dell’ambizione? Oltre quali confini non bisogna spingersi (o essere spinti) per arrivare ad un obbiettivo? La risposta viene data in parte già dalla stessa riuscita di un film estremamente competitivo cha ha saputo puntare più in alto di quanto si potesse permettere. L’arroganza violenta e la sfrontatezza con cui Chazelle si è presentato al grande pubblico non ha niente a che invidiare ad autori che hanno fatto molta più gavetta di lui prima di permettersi di realizzare un prodotto autoriale di questo tipo. Chissà allora se qualcuno durante la produzione del film gli abbia mai detto le due parole più pericolose della lingua inglese: good job. Sicuramente non gli avranno detto che proprio la famosa scena del bar in cui J.K. Simmons sfodera la sua arringa per difendere il suo lavoro sarebbe diventata un’ottima chiave di lettura dei nostri anni. Vedendo infatti quello che sta succedendo nel mondo, dove a regnare è (letteralmente) la mediocrità, sembra che non ci sia più posto per i nuovi Charlie Parker sommersi ormai da una patina di superficialità e disillusione dalle stesse persone che li dovrebbero incoraggiare o fungere da punto di riferimento. La lezione che Whiplash estremizza è che di questi tempi serve ancora più pratica, più determinazione e talento per raggiungere un obbiettivo.

E lo fa usando cinematograficamente gli stessi stilemi che per anni sono stati schematizzati per i film di argomento sportivo alla Rocky, in cui si rincorrevano le fasi di preparazione del match, il duro allenamento, i momenti di resa e la vittoria finale. Tutto questo per rendere ancora più familiare ed attraente al pubblico la grande fatica, sia fisica che psicologica, che il protagonista deve sostenere per arrivare alla vittoria finale. Fino a doversi porre di nuovo la stessa domanda di partenza: dove fermarsi? Chazelle non si è fermato ed anche con La La Land di prossima uscita ha voluto ancora una volta sottolineare con forza che per emergere serve tanto lavoro e soprattutto tanti sacrifici. Bisogna rinunciare a tante cose, essere pronti a sanguinare, ad essere ridicolizzati per poi rialzarsi con ancora più tenacia. Forse lo sforzo che ci viene richiesto per emergere in questa società è troppo, ma un ragazzo classe 1985 ci ha tenuto a ribadire che è così che stanno le cose. E lo ha fatto con uno stile indimenticabile, lasciandoci un film motivazionale tra i migliori degli ultimi anni.

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