Paterson: la recensione del film di Jim Jarmush

0

L’inquadratura più bella di Paterson, una tra le tante disseminate da Jim Jarmush, è quella che vede l’ombra di Adam Driver tuffarsi a terra per poi sparire nel buio, mentre camminando percorre la strada davanti a sé. Non soltanto descrive la grande semplicità del gesto, un incontro tra colori, ma restituisce la poesia del film, la sua natura leggera come una carezza, il senso estetico dell’immagine da sempre propria del linguaggio cinematografico del regista. Unico nel panorama contemporaneo, riconoscibile, che in Paterson (in concorso al Festival di Cannes) abbandona quel virtuoso girare in tondo di Solo gli amanti sopravvivono in favore di un racconto lineare, lento, procedendo sulla linea della quotidianità dell’uomo normale. Allora cosa rende speciale questa normalità, nel rimbombo di un mondo che là fuori sbraita e scoppia di effetti visivi, combattimenti, azioni spericolate? I dettagli, le piccole cose, un bacio dato alla donna che amiamo appena svegli, il pranzo preparato da lei con cura, la birra al solito pub.

Paterson è l’autentico miracolo di un cinema scomparso, che attraverso lo sguardo di Jarmush si fa elogio a ciò che solitamente appare poco interessante o eclatante, abituati come siamo a chiedere di più, sempre di più di quanto ci è concesso. Invece è in questo universo disperso nell’America di provincia che sentiamo l’urgenza di ricollegarci al benessere scaturito da gesti naturali, e non da chissà quali imprese, alla serenità di vivere un’esistenza tranquilla talvolta concedendosi di sognare (ecco spiegata la figura di Laura, la moglie), talvolta decidendo di fermarsi a scrutare un panorama immobile, uguale al giorno precedente, eppure bellissimo ed eterno (quello che piace a Paterson).

Ad ogni dissolvenza in nero che scandisce la fine e l’inizio di una nuova giornata, sembra quasi di chiudere e riaprire gli occhi dopo un lungo sonno: è qui che Jarmush agita la bacchetta per creare la sua inconfondibile magia. Per una settimana lo spettatore rimane immerso nell’esperienza del protagonista, è lì con lui, mentre guida l’autobus e si mette ad origliare le parole dei passeggeri, o quando è ben disposto ad assecondare i sogni impossibili di Laura. Poi si risveglia per tornare ad essere niente, o forse tutto, come vuole spiegare il film; in uno spazio perfetto di rimandi visivi e interpretazioni straordinarie in cui il regista non ripete mai la stessa inquadratura, proprio per osservare la vita di Paterson da più angolazioni. Perché la sua è degna di essere esplorata, compresa, accettata e goduta pienamente.

Siamo davanti ad un lavoro incredibile, lontano un soffio dal capolavoro. Di certo resta la bellezza di una poesia, come quelle scritte e recitate da Paterson, a verso sciolto, senza rime, che segue il flusso dell’esperienza umana non con il movimento ma con la voglia e il bisogno di rimanere fermi a contemplare il mondo che ci circonda attraverso gli occhi di un eroe urbano involontario. Un Dante Alighieri del New Jersey traghettatore di anime, e soprattutto di cinema eterno.

Share.

About Author

Leave A Reply