Spider-Man: Homecoming, la recensione: citazioni e zero rischi, la Marvel vince ancora

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A chi non fosse pratico delle usanze americane e delle sue terminologie scolastiche, si definisce “homecoming” il rituale ballo offerto agli studenti del primo anno di liceo pronti a trasformarsi fisicamente e psicologicamente durante la delicata fase del coming of age. Anche detta adolescenza. Imbarazzati e goffi nei loro smoking in affitto o nei loro abiti da sera, vivono questo rito di passaggio con una certa ansia da prestazione: sotto lo sguardo dei compagni e la luce dei riflettori, diventano grandi attraverso un passo di danza, un bacio rubato, debuttando in quello che è il microcosmo dell’esistenza giovanile. Qui vive l’anima del terzo Spider-Man cinematografico, il terzo della storia, intitolato infatti Homecoming, orientato più dalle parti della serialità alla Freaks and Geeks (la serie cult creata da Paul Feig negli anni Novanta) e del teen movie di John Hughes, a cui il regista Jon Watts dedica diversi omaggi visivi (come la citazione esplicita a Ferris Buller’s Day Off). D’altronde basterebbe dare un’occhiata al team creativo che ha curato soggetto e sceneggiatura del film: John Francis Daley (fu Sam in Freaks and Geeks), Chris McKenna (autore per Community e Lego Batman) ed Erik Sommers sono riusciti nel delicato compito di spostare la responsabilità del personaggio – già ampiamente affrontata con un approccio serio da Sam Raimi e Marc Webb – in un contesto adolescenziale, immaturo dunque con possibilità di evoluzione, di fatto realizzando un prodotto di genere che ha al suo interno un personaggio con dei superpoteri.

Gli elementi tradizionali del teen movie sono distribuiti in modo saggio durante tutta la durata del film, intelligente – ma anche molto furbo – nell’affidarsi a schemi e strutture narrative ormai consolidate dei romanzi di formazione: quello di Tom Holland, geek scaltro e spiritoso aggiornato ai tempi, è un Peter Parker che non si sente all’altezza del suo nuovo ruolo sociale, ostinato a definire se stesso attraverso un’etichetta (come i teenagers del cinema di John Hughes) e in cerca di un’identità. A completare il disegno di questa manovra chirurgica, ci pensa l’antagonista asciutto, diretto e pericoloso di Michael Keaton; meno borghese del suo Birdman, ma più umano e proletario, è la sintesi dell’americano medio tradito dalle istituzioni che tenta la strada del successo illegalmente, senza scrupoli e mezzi termini. Praticamente perfetto.  Il problema, se vogliamo addentrarci nelle zone d’ombra dell’impeccabile macchina produttiva Marvel, è che queste idee, queste soluzioni, questo immaginario, appartengono al passato, e non c’è un’idea realmente originale. Giocare sempre coperti, rischiando pochissimo, sarà pure la strategia vincente, ma non basta per consegnare alla storia qualcosa di davvero memorabile.

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