Possiamo già sentirla, l’eco lontana dei giudizi contrastanti che puntualmente scatena del chiasso inutile intorno ai cinecomic, fenomeno da non prendere più sotto gamba perché davvero caratterizzante di quest’epoca. Su Wonder Woman la critica americana ha speso parole di approvazione (finalmente un prodotto DC all’altezza del Cavaliere Oscuro di Christopher Nolan: che esagerazione, aggiungiamo), qui da noi, è quasi certo, voleranno pesanti stroncature (la veridicità storica degli eventi è abbozzata, il cgi è grossolano, etc etc); la verità, se ne esistesse una, sta sempre nel mezzo, in una zona neutrale poco frequentata che aiuta a vedere film come Wonder Woman con la giusta prospettiva. Non risolve la sorte malcapitata della DC universe – impegnata a costruire un immaginario mitologico che poco ha a che fare con il cinematografico – e non sorprende per inventiva e spettacolo della messa in scena, ma apre nuove strade. E la storia, che lo riconosciate o no, passa anche da qui.
Forse diamo per scontato che dietro la macchina da presa ci sia una donna, la Patty Jenkins che imbruttì all’inverosimile Charlize Theron in Monster (e allora fu Oscar all’attrice), o che nel 2017, una donna sia protagonista assoluta di una pellicola d’azione (con l’indice di gradimento favorevole al pubblico maschile). Tutto questo accade nell’ambito di un genere conservatore che ha radicalmente cambiato l’intrattenimento moderno: trasformando idee e personaggi in pacchetti di film omologati, appiattendo l’esperienza della sala con un bombardamento di effetti speciali e poco altro, spacciandolo per cinema. Il cinema è un’altra cosa. Questo è divertissement – collaudato e intelligente – che sfrutta un trend come capitale e si ripete nel tempo a intervalli regolari finché non ne saremo totalmente assuefatti.
Wonder Woman, dal canto suo, prova a crearsi una lettura personale facendo breccia nel cuore di un racconto di formazione, molto semplice e tratteggiato con sfumature disneyane, partendo dalle origini della principessa Diana; principessa curiosa e coraggiosa, gentile e leale, bellissima e pura, un’eroina che trascende l’umano e abita una dimensione ultraterrena, che non esiste in natura. Lei ha il sangue degli uomini e la trasparenza degli Dei. Una dicotomia espressa fin dall’inizio, dove le frecce delle amazzoni di isola Paradiso incontrano il fuoco dei proiettili: è un’immagine molto significativa, banale direte, ma comunque d’impatto. Quando poi Diana abbandona i colori caldi di casa e salpa alla volta del “mondo reale”, il candore lascia spazio all’orrore, la guerra divide e azzera ogni dualismo.
Si torna dunque a un grado zero (e ciò potrebbe giustificare la scelta di descrivere il conflitto interiore ed esteriore in modo un po’ infantile, illudendoci di essere di fronte ad un classico Disney), all’amor vincit omnia e alla composizione di ottimi messaggi per le giovani generazioni che possono trarre ispirazione dal personaggio. Wonder Woman è, in definitiva, un manifesto femminista a misura di bambina, ma è anche quell’eroina col mantello che cammina a grandi falcate nella Parigi degli attentati e del pericolo terrorista; ha un’identità, seppure rivelata da una sceneggiatura assai debole e troppo sempliciotta, ed è già un bel traguardo, visto l’ultimo tonfo di Suicide Squad. Si riconosce nella meravigliosa interpretazione di Gal Gadot, nella sua attitudine all’azione e all’eleganza, nella maniera in cui indossa questa responsabilità politica e culturale, prima che il costume.
Wonder Woman non è un film indimenticabile ma matura in corso d’opera. Ironico, al momento giusto, coerente e dignitoso, retorico se vogliamo. Dagli errori si risorge, dalla perseveranza si ottiene il risultato, e siamo convinti che la DC possa fare molto, ma molto di più. A cominciare da qui.