Rogue One: A Star Wars Story, la recensione del film di Gareth Edwards

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È di nuovo la storia di un padre e di un figlio a dettare il sentimento e l’avventura nella galassia lontana lontana. Padri che cercano disperatamente di proteggere i loro figli, figli che risalgono montagne di dolore e ricordi per ricongiungersi ai padri smarriti nel tempo: anche in Rogue One: a Star Wars Story, primo di una serie di episodi staccati dalla saga principale, l’azione viene scatenata da un evento familiare, una separazione forzata e violenta che lascerà tracce indelebili nella vita di Jyn (Felicity Jones). Eroina sporca e decisa, come lo è l’approccio di Gareth Edwards al film, un elemento cinematografico che di certo lo rende diverso da tutti gli altri capitoli di Guerre Stellari, ma simile al precedente di J.J.Abrams per l’intenzione subito adulta, per il modo in cui lascia una figlia (alla pari di Rey) a gestire la propria solitudine nel mondo maschile. I “padri” quasi scompaiono dalla scena e lasciano spazio agli eredi di una generazione che ha lavorato per costruire la speranza di cambiamento (e i parallelismi con il nuovo corso di Star Wars si sprecano), giovani fragili, e non per questo meno coraggiosi.

Dal canto suo Edwards, già capitano di un blockbuster riuscito come Godzilla, non fa che ribadire quella stessa sicurezza con cui maneggiava la macchina da presa tra fuochi e guerriglie armate: dopo un primo atto introduttivo e un secondo di assestamento, il regista sembra riservare lo spettacolo migliore all’epilogo, gestendo con grande maturità sia le riprese aeree, sia quelle ad altezza d’uomo. Addizionando le due prospettive si ottiene un risultato non soltanto dinamico e piacevole agli occhi, ma soprattutto divertente, passionale, in pieno stile Star Wars.

Nato per esistere e consumarsi nei 143 minuti di durata, Rogue One è tra i capitoli più scuri e adulti della saga; la motivazione politica alla base, il nero come colore predominante (delle guardie imperiali, dei droidi da combattimento), l’immagine costante e ripetuta della morte come elemento necessario al sacrificio, e quindi alla riuscita dell’impresa, sembrano affrontati con una consapevolezza diversa, non nuova né particolarmente sorprendente, ma comunque ammirevole. Forse è proprio nella sentenza definitiva e auto-conclusiva che il film trova la sua cifra speciale: una fiamma che arde e brucia finché è accesa e che, una volta spenta, lascerà un buon ricordo.

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