L’altro volto della speranza: la recensione del film di Aki Kaurismäki

0

Wilkstrom, rappresentante di camicie, lascia la moglie e decide di cambiare vita tentando la sorte. Khaled, giovane profugo siriano si ritrova quasi per caso a Helsinki. Le vite di questi due personaggi sono destinate a incrociarsi.

L’altro volto della speranza – vincitore dell’Orso di Argento per la Miglior Regia alla Berlinale 67 – è l’ultimo film del regista finlandese Aki KaurismäkiInvestito di una tragica attualità,  per un’ora e quaranta lo spettatore si trova comunque catapultato in uno strano mondo lontano, quasi irreale, illuminato da luci fioche. Spesso e volentieri è il buio a prevalere, e quando la luce riesce, rischiara colori spenti, tappezzerie e moquette dall’aria malconcia, tessuti lisi che ricordano spesso la pessima qualità del poliestere. Ma niente di tutto ciò trascina chi guarda in una dimensione di tristezza o di compatimento, al contrario, in ogni inquadratura del regista ci si sente protetti come in una favola, con il risultato che come bambini ne vogliamo sempre di più.

Forse è proprio questo perfetto e splendido squallore l’altro volto della speranza, l’altra facciata di cui intende parlarci Kaurismäki. Quell’altro lato privo di sdolcinatezza e buonismo, di false parole e di fredda rassicurazione. Qui si sta narrando la speranza che cresce dal basso e dall’infimo e va di pari passo con la disperazione e la malinconia. La speranza vera che non ha dimora nelle parole dei potenti o degli stupidi, usate  per rabbonire.

In fondo questa è una storia che parla di un profugo, che affronta una realtà dura e più che reale, su cui è facile fare retorica da due soldi come i peggiori notiziari. Kaurismäki invece non cade mai nel pietismo, forte di un uso sapiente della potente arma dell’ironia. Perché qui l’ironia si nutre del paradossale, si fonde ad esso perfettamente e tutto ciò che c’è di folle e crudele in questa realtà  viene smascherato e denudato da un Kaurismäki monello in aria di scherzi, che sfregia con la macchina da presa la stupidità cieca e gretta, gettandola a capofitto nella dimensione del ridicolo. Così i nazistelli che tormentano Khaled sono folli all’ennesima potenza, loro e le loro giacchette di pelle con su scritto in modo sghembo e con qualche stupida vernice Liberation Army Finland. Il messaggio politico che il regista vuole lanciare arriva evitando ogni schema buonista, ma bensì librandosi sulle ali dello strambo e del buffo in grado di tenere conto di ciò che realmente succede.

Tutto è un po’ strambo e buffo, laddove i volti dei personaggi  sembrano essere stati scelti per il loro disegno pieno di rughe e linee, vero da incutere quasi timore, come una poesia. Una poesia addolorata come un paio di occhi neri silenziosi. Musiche finlandesi narrano storie di contadini in lotta contro l’aridità della terra e intanto il fumo delle sigarette pervade quasi sempre la scena. Kaurismäki non nasconde le brutture della vita, anzi fa in modo che investano la scena cantando quelle magiche e salvifiche e denunciando quelle che non meritano di far parte del mondo. E alla fine di tutto è impossibile non rimanere estasiati.

Share.

About Author

Leave A Reply