My Beautiful Broken Brain, la recensione: la vita dopo l’ictus nel documentario prodotto da David Lynch

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Dopo mesi di riabilitazione, la prima parola che la 34enne Lotje è riuscita a scrivere è stata “help”, aiuto. È questo quello che ha cercato la notte in cui, dopo una serata all’insegna del divertimento con degli amici, ha avuto un ictus. Un colpo che l’ha portata ad una condizione quasi infantile, obbligandola a dover imparare nuovamente a parlare, leggere e scrivere. Il viaggio di Lotje alla ricerca della se stessa di un tempo è raccontato dal documentario, prodotto da Netflix, My Beautiful Broken Brain. 

Nella doppia veste di oggetto descritto-soggetto decrivente, Lotje accompagna lo spettatore attraverso un delicato (tanto drammatico quanto speranzoso) cammino all’interno della donna che è stata prima dell’ictus, che è durante la riabilitazione, e che sarà finito il ciclo di cure. La testimonianza della donna si articola attraverso un continuo ping pong tra le riprese effettuate dalla troupe (coordinate dalla co-regista Sophie Robinson) e le riprese effettuate da lei stessa, attraverso le quali si riesce a percepire la sua realtà. L’immagine sgranata del cellulare, se non rappresenta la realtà trascendente, variegata e deforme della donna (quasi simulando la vista dell’occhio destro, quasi compromessa dopo l’ictus), si sofferma sul suo volto, a tratti perplesso e disorientato, ma ancora capace di raccontare, attraverso un discorso confuso, la vita che va avanti nonostante la malattia.

Lotje, documentando per un anno la sua bellissima, ma “rotta” esperienza, attraverso cure sperimentali, lunghi dialoghi con familiari e amici e una simpatica serie di video messaggi diretti a David Lynch (produttore esecutivo del film), è il simbolo della voglia di vivere, dell’assoluto amore per la vita, che sia quella della 30enne impegnata nel lavoro o quella dell’essere umano fragile, indifeso di fronte ad un male cieco e casuale, obbligato alla reazione. Lotje, attarverso la toccante e personale opera, perde se stessa e, attraverso un viaggio quasi surreale fatto di letture forzate, ripetizioni di termini, aggettivi, nomi e verbi, la ritrova: diversa, ma non per questo peggiore o migliore. La vita va avanti. La vita deve andare avanti, per ritrovare e riscoprire la sua, fallace quanto genuina, bellezza.

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