T2 Trainspotting: la recensione del film di Danny Boyle

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Atmosfera. Forse è questo il termine che riesce meglio a racchiudere quel connubio tra musiche, messa in scena, sequenze, dialoghi che ha segnato la svolta epocale di Trainspotting, quando uscì nel 1996: un’atmosfera che mischiava con libertà incosciente e consapevole la new pop generation, ibridata tra vibrazioni vintage rock, la techno e l’era dei videoclip, con la crisi sociale e il senso di malinconica perifericità della Scozia di fine millennio, l’umorismo caustico, il senso del grottesco, l’amore, la violenza, la droga. È davvero impossibile per chi abbia vissuto appieno la dirompente presenza del film di Boyle, soprattutto i nati negli anni ’70 e ’80 (come chi scrive), non venire travolto e inghiottito da una sorta di bolla, che quasi sospendeva il tempo e la realtà, facendoti entrare nello scorrere pulsante delle vite di Mark Renton, Sick Boy, Spud e Begbie.

T2 Trainspotting è l’esplosione di quella bolla. Un ritorno, a vent’anni di distanza, dopo “opportunità e tradimento”, che rimescola le carte e ci riporta idealmente a dove avevamo lasciato il racconto con la fuga di Renton. Ma i nostri protagonisti sono quarantenni adesso, e devono fare i conti con il tempo che passa, la maturità, le conseguenze delle proprie azioni: lo sguardo si apre al mondo circostante ora, e la stessa Edimburgo, prima fatta di spazi angusti scalcinati alterati, diventa visibile scenografia delle vicende di questo sequel tanto atteso, mentre i ricordi del passato sono sagome fantasmagoriche che si rincorrono per le strade della città.

Danny Boyle abbraccia con viscerale e ben percepibile affetto il suo quartetto di formidabili protagonisti, eppure l’abbraccio sembra spesso trasformarsi in nostalgica contemplazione, in distacco analitico. C’era qualcosa di profondamente teatrale, discontinuo e imperfetto nel primo Trainspotting da trascendere la perfezione tecnica, i movimenti “precisi” di macchina, la linearità drammaturgica mainstream, per catapultarti in quell’atmosfera empatica e partecipante, difficile da scrollarsi di dosso. E a conti fatti, sembra proprio questo a mancare di più durante la visione di T2 Trainspotting: se questo secondo film, fatto dopo un processo decisionale, litigi e riappacificazioni lunghi un ventennio, è il “capitolo” della maturità – dei personaggi e del cast tecnico –, lo sguardo registico sembra faticare per trovare il giusto punto di vista, il giusto distacco. Sembra insomma a tratti soffocare o auto-censurarsi in un discorso narrativo indeciso se connettersi con maggiore forza al primo film o tentare una strada diversa.

Ma c’è ancora Trainspotting in T2? Mark ha i capelli lunghi, Sick Boy è diventato Simon, Edimburgo non è più la stessa e il motto di “scegli la vita” ha un’altra connotazione ormai. Siamo gli stessi, eppure diversi, cambiati eppure sempre uguali; la strada va avanti, ma il percorso è circolare. Ed è quando il film, e Boyle stesso, si lascia andare alla sperimentazione, all’amore profondo per i suoi personaggi (e attori), alle tematiche di pregnanza sociale e rarefatta malinconia, persino alla “missione nostalgia” sfacciatamente rivolta ai suoi spettatori, è proprio in quei momenti che T2 Trainspotting vibra e brilla delle atmosfere calde, coinvolgenti e scanzonate che avevamo tanto amato vent’anni fa.

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