In un tale quadro, il film della Coppola è un episodio per nulla trascurabile, perchè accanto al suo solito ed inimitabile esercizio di stile, lampeggia un avvertimento, un’analisi che, dietro le risate e il dinamismo di superficie, nasconde tutta la tristezza della nostra epoca, così povera, così vuota e marcia. Il crollo morale delle giovani generazioni è un fenomeno virale e drammatico, la cultura americana, che negli anni ’60 e ’70 aveva attraversato tempi di inarrestabile ribellione e consapevolezza sociale e politica, ora sembra sepolta sotto la celebrazione del vuoto esistenziale, il nulla che raccoglie il successo, la fama, i vestiti, i gioielli, le scarpe, il denaro, l’ansia di condividere ripetitive istantanee di vita privata.
Ciò che stupisce di Bling Ring è l’approccio alla realtà di Sofia Coppola, una realtà che conosce bene (lei è dentro e fuori questo mondo), perchè spietato e feroce, quando dai toni beige e ovattati delle battute iniziali cambia registro e la fotografia si fa cupa. Non c’è mai il minimo spiraglio per la compassione, non c’è intimità con dei protagonisti smarriti e colpevoli, scelta che rende questa pellicola minore rispetto alle cinque finora dirette, dove invece era fortemente voluta una connessione emotiva tra il pubblico e i suoi eroi. Infelicità e solitudine ritornano ancora una volta come i veri fantasmi dei privilegiati, prigioni immaginarie senza via d’uscita.
Bling Ring segna forse la fine di un ciclo. Abbiamo contemplato la giovinezza in ogni suo aspetto velato, dall’innocenza delle sorelle Lisbon all’infanzia rubata di Marie Antoinette, per giungere al capolinea di un sogno infranto sui tacchi vertiginosi e le extensions di Nicky, Sam, Rebecca, Chloe e nello sguardo innocente di Marc, nel quale c’è molto della Coppola. Uscirete dalla sala con un profondo e irreversibile senso di tristezza, per quella speranza che era solita lasciare sul finale dei suoi film e che stavolta, pare essere la grande assente.