In un’epoca dove le statistiche dominano il sapere e la ragion d’essere dei fenomeni, potrebbe aiutarci contare i numeri che hanno reso celebre e quotato un regista come David O. Russell nella sua, seppur breve, carriera. Se le cifre non mentono, diremmo che l’Academy e affiliati hanno scelto il pupillo del decennio: 17 candidature ai Golden Globe, 15 agli Oscar (di cui 3 statuette vinte) e svariati riconoscimenti relativi ad altre competizioni cinematografiche. Il lungo cammino del trionfo, iniziato con The Fighter e proseguito con Silver Linings Playbook, culmina oggi nell’acume di una trilogia che trova in American Hustle la piena geometria, opera tanto ambiziosa quanto poi simile alle precedenti, per l’ assetto furbamente arredato, per la sovrabbondanza di elogi che la precedono e che la accompagneranno certamente alla conquista di qualche ambito premio, per la parata di attori che O. Russell attrae a sé come un padre generoso e spinge dolcemente nell’arena a giocare e divertirsi. Perché di gioco si tratta. Gli anni Settanta, trasformati su pellicola, assumono le forme grottesche di acconciature vertiginose, parrucchini, ventri gonfiati dall’alcool, smalti e ricci selvaggi, elementi che confluiscono in una rappresentazione comica, ma infine ordinaria, caricaturale, noiosa.
American Hustle riverbera, in maniera più accentuata, gli elementi della filmografia di un autore forse troppo sopravvalutato. Grandi interpreti che rincorrono le imprecisioni di sceneggiature banali, cambi repentini di registro, dove l’ordine delle cose viene sovvertito onorando il gusto trash di siparietti comici di bassa lega, ritagli di inspiegabile follia a cui viene accompagnata la solita, ripetitiva sequenza di ballo. Non bastano quelle porzioni di spazio scenico riservate alla bravura di Christian Bale, al fascino di Amy Adams o alla verve comica di Jennifer Lawrence, per salvare un film altrimenti ruffiano, confezionato ad arte per ammaliare un pubblico disattento o sensibile agli ammiccamenti di O. Russell, che ama dondolare nell’illusione del mestiere, la stessa illusione che percepiamo nel piacere dell’ascolto di una straordinaria colonna sonora, e che vediamo sgretolarsi nella consapevolezza di aver assistito ad un altro spettacolo di mediocre importanza. L’ambizione e l’eccessiva valutazione, in tal caso, sembrano divorare il resto. Ci ritroveremo durante l’annuale Award Season, ad aggiornare le statistiche, in una gara infame dove i numeri contano più di ogni cosa.