Ritratti Black & White: Sofia Coppola

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Ci sono aneddoti di vita comune che riempiono quei vuoti altrimenti colmabili con inutili fantasie e sciocchezze. Tutti immaginiamo, o meglio, pretendiamo di conoscere i personaggi pubblicamente spalmati. La verità invece è inafferrabile, ma è un mistero che si fa meno opaco quando ci vengono regalati dei preziosi dettagli. Chi è Sofia Coppola? Una donna, una madre, una regista, una figlia d’arte. Sofia Coppola è anche uno straordinario bacino di memorie, timidamente raccolte, legate ad un’infanzia ricca, soddisfatta e privilegiata, che a lei piace descrivere come una giostra itinerante, sempre a spasso per i set. “Sono cresciuta col cinema, mio padre ci portava sempre con sé, ci teneva vicino. Ricordo che avevo più o meno tre anni, eravamo in macchina, papà e mamma discutevano animatamente e a me non piaceva. Io ero sul sedile posteriore e ad un certo punto non gridai ‘piantatela’ ma ‘Cut!’ come si dice sul set quando una scena va interrotta”. Di tempo ne è trascorso da quell’episodio, eppure la situazione sembra rimasta invariata. Sofia grida ancora ‘Cut!’, non ama il baccano e osserva lo scorrere delle cose da una posizione di totale tranquillità.

SOFIA, I PRIMI PASSI

Nella fruttata terra dei Coppola, un appezzamento di Napa Valley dove Francis Ford raduna la famiglia con chiacchiere e buon vino, sono nati gli eredi di una generazione di artisti. La tavola presenta un quadro esemplare di soggetti variegati e assortiti: c’è la mamma Eleanor, documentarista, il fratello Roman, eclettico gentleman che dirige videoclip e porta gli occhiali di Richie Tenenbaum, i cugini Jason e Robert Schwartzman, uno attore feticcio di Wes Anderson, l’altro musicista disincantato. L’immagine, seppur lontana dalle macchie impressioniste, pare quella pennellata da Renoir in “La colazione dei canottieri”. Quando il patriarca inquadra in fasce la piccolissima Sofia nella scena de Il Padrino, il destino pianta un altro seme e le radici crescono, riparate dal gelido inverno che attende fuori. Un coro indistinto di voci diffidenti (quella è la figlia del grande Francis, che facile e indisturbata carriera l’aspetta) si leva quando lei, diciassettenne, scrive la sua prima sceneggiatura per l’episodio di New York Stories intitolato “Life Without Zoe”, diretto dal padre in un mosaico che comprendeva Woody Allen e Martin Scorsese. Il personaggio d’inchiostro femminile riverbera subito i tratti peculiari di un futuro già nitido, schiacciato tra la solitudine dei grandi spazi e la malinconia che ne deriva. Zoe è una parente molto lontana di Lux Lisbon, di Charlotte, di Marie Antoinette e di Cleo, perché ne tratteggia i confini, iniziando un percorso che sarebbe culminato con i tristi adolescenti di Bling Ring.

SOFIA, ALLA REGIA

I pregiudizi sono come spilli sul cuore. Forse mancava un po’ di coscienza a tutti quelli che accusarono la giovane Sofia di nepotismo. Due anni prima, suo fratello Giancarlo morì in un tragico incidente nautico. Eventi del genere accadono ed hanno il potere di stringere le persone (famose e non) in un collettivo sentimento di comprensione, volubile come un soffio di vento, verso una giovane donna che affronta il dolore della perdita scrivendo di altri dolori, magari più lievi, ma necessari. Se oggi dovessimo comporre un ritratto definitivo di Sofia Coppola, diremmo che lei trasforma in immagini le esperienze personali, dilatandole in lunghi silenzi e trascinate fotografie di sincerità. Non ci sono effetti speciali né pompose e ascendenti sceneggiature. La storia, la sua, è un’istantanea di vita avvolta da un eccellente gusto estetico e da note dolcissime, che funzionano quasi da antidoto contro l’aggressività del cinema moderno. Un cinema dal quale fugge nella speranza, pienamente realizzata, di trovare la propria e inimitabile strada. “Quello che caratterizza il nostro lavoro è certamente la ricerca personale, perché lavoriamo in un periodo segnato da film mediocri costruiti a tavolino.” dirà riferendosi ai colleghi cineasti del 21° secolo. Curiosità e originalità attraversano quella strada, ispirata dai maestri che lei cita con la discrezione degli umili artisti: Kubrick, Antonioni, Malick, Truffault, Fosse. E Francis Ford Coppola, ovviamente. Sono caratterizzanti del suo stile una regia lenta che accompagna l’immagine, congelata nella purezza di sceneggiature molto asciutte, poi un’inconfondibile fotografia che si precipita nell’espressione più alta dell’estetica formale. Sofia Coppola è bellezza, maturità, intelligenza. I suoi film hanno l’impronta della giovinezza femminile, un microcosmo inesplorato che rimane appeso nella galleria dei ricordi innocenti insieme al regalo che ogni volta confeziona e scarta per noi, quando farcisce la scena di ottima musica. Non ci si compiace mai abbastanza nell’ascoltare gli Air, oppure i Phoenix, i The Cure, i New Order, l’apoteosi del rock eclettico passato e presente.

SOFIA, DIETRO LE QUINTE

Esordiente con il cortometraggio Lick The Star, talento sbocciato attraverso Il giardino delle vergini suicide e Lost in translation (che le regalò un oscar per la sceneggiatura originale), coraggiosa anticonformista capace di sfogliare l’altro lato della storia francese con Marie Antoinette, lente di una ripetitiva e depressa Hollywood con Somewhere e infine codificatrice della cultura giovanile contemporanea con Bling Ring. Sofia Coppola si è distinta, in questa nuova generazione di cineasti che rincorre il mito del passato passando per la rivoluzione dei mezzi. Autrice essenziale, regista rigorosa, amata e stimata dai collaboratori, lodata dagli attori che ha inconsapevolmente illuminato. Quando l’abbiamo incontrata a Roma, in occasione della conferenza stampa del suo ultimo film, Sofia sorrideva timidamente. Si avvertiva la distanza che è solita tracciare fra lei e la gente. Credo sia un atto di generosità, in fin dei conti, un tempo in cui è possibile elaborare dei pensieri, e a proposito mi viene in mente la sequenza iniziale di Somewhere, con quell’auto che gira a vuoto ed è il senso di tutta la pellicola. Poi penso a quel verso di “Avalon”, il pezzo di Bryan Ferry, che dice “Much communication in a motion, without conversation or a notion” e che sembra aver scritto appositamente per lei. La bambina che gridava ‘Cut!’ ai genitori, la figlia d’arte che ha colorato la solitudine e la malinconia di un tiepido e rassicurante beige, la donna che è icona e modello di una fiera e intelligente femminilità.

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