Ritratti Black & White: Matthew McConaughey

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Tutti lo pensano, qualcuno ne parla: impazza il fenomeno McConaughey. Dai primi anni Novanta, il suo Tempo delle Mele, conditi da piccoli ruoli, facili commenti al suo indubbio fascino e ampi giri intorno a un super obiettivo, di strada se n’è fatta. Il che risulta più che giustificato, quasi il naturale corso degli eventi, considerando le modestissime origini di questo biondo bello e dannato dei giorni nostri – origini texane, umili, che lo vedevano ancora piazzato ai box di partenza. Ma ultimamente qualcosa è cambiato, l’aria si è fatta più densa di grandi occasioni che, giustamente, Matthew non vuole sprecare. E per nostra fortuna non ha sprecato. Si è rivelato, mostrandoci un’altra parte, una parte che per almeno quindici anni è rimasta nell’ombra, una parte lontana da rivolte di ex, facili commediole romantiche e particine di poco conto in un contesto generale. Il ragazzotto è cresciuto, e con lui la sua dark side, la sua volontà di emergere e uno strabiliante talento che ancora facciamo fatica a metabolizzare.

Matthew nel limbo

Difficile a credersi, ma persino il buon McConaughey ha fatto la sua brava gavetta, trastullandosi – con le due significative eccezioni d’autore di Contact Amistad – per circa un decennio, prima di optare per un quanto mai deciso “adesso basta così”. A dimostrarcelo una sfilza di titoli e narrazioni scialbi, poveri e poco fertili, in cui il giovane attore non avrebbe certo potuto far capolino: gli vengono affidati ruoli di serie b, da spalla, per lo più dovuti al suo status di belloccio, parti che lo vedono letteralmente buttare all’aria il suo enorme potenziale ancora nascosto. Tuttavia, come ha affermato in un’intervista rilasciata a Vanity Fair quattro anni fa, “c’è un sacco di gente in gamba, a Hollywood. E tutto il meccanismo a me piace: l’anatomia dell’industria, in ogni suo aspetto, mi appassiona. Ed è sempre stata generosa con me. Il che non è affatto una cosa scontata. A Hollywood le porte sono lì per tenere la gente fuori, non per farla entrare”. Tutto sommato, un commento realistico ma anche affettuoso nei confronti di quella prestigiosa macchina da esportazione che è il cinema americano odierno. Ma forse c’è qualcosa in più, in quest’artista a tutto tondo, qualcosa che fino a poco tempo fa ci era precluso, qualcosa che si è trattenuto per lungo tempo e che adesso è pronto ad esplodere. Che si tratti di una casualità, di una scoperta o di un percorso che l’attore si è prefissato fin dall’inizio, sulla falsa riga del voglio mostrarvi chi sono, i fatti parlano chiaro: assistiamo ad una delle più eclatanti rivelazioni del cinema mondiale, alla nascita di un attore nuovo che a molti nostalgici già ricorda i vecchi interpreti del cinema classico, i cui ingredienti erano ruvida beltà, fascino da vendere e uno sguardo perforante impossibile da dimenticare.

Matthew… di Cooper in Cooper

Per molti la svolta di Matthew coincide con l’interpretazione del personaggio di Killer Joe, per alcuni puristi addirittura con quella di Ron Woodroof in Dallas Buyers Club. Ad ognuno le proprie opinioni, sebbene una presa di posizione oggettiva ci porterebbe a credere alla prima. È quindi nel 2011, a ben quarantadue anni, che Matthew comincia a parlare e a far parlare di sé, nei panni di un levigato e inquietante poliziotto affetto da squilibrio mentale che per arrotondare le entrate uccide a pagamento. Ecco che finalmente arriva uno spessore, un ruolo introspettivo in cui lasciar scorrere il flusso migliore della capacità recitativa dell’attore. Per molti discutibile, anche la scelta di Magic Mike, diretto da niente poco di meno che Steven Soderbergh, ha del ragionevole, o quantomeno del ponderato: un successo di botteghino con un ormai riconosciuto autore del cinema contemporaneo. Non pago, Matthew continua a salvare vite, come quella del mediocre Mud, film di poco conto che però ci spinge ad andare fino in fondo soltanto per la presenza di un personaggio, come dicono gli anglosassoni, outstandingDa non dimenticare è il Matthew televisivo – che in realtà troppo televisivo non è – consacrato, grazie alla HBO, da una serie già diventata cult e profondamente cinematografica come True Detective.

Il ruolo di Rust Cohle, così come ci viene offerto, in tutte le sue sfaccettature, positive o negative che siano, ci dà costantemente la sensazione di una parte scritta per Matthew fin dalla notte dei tempi della sua carriera: mette in atto quell’exploit tanto atteso dai suoi estimatori. Ed è attraverso questo tortuoso viaggio che giungiamo agli ultimi tre atti della carriera del nostro protagonista: il toccante Dallas Buyers Club – già calorosamente acclamato alla sua uscita al Festival Internazionale del Film di Roma nel 2013 – , The Wolf of Wall Street – di un certo signore di nome Martin Scorsese – e il commentatissimo Interstellar, emblematico sci-fi firmato Christopher Nolan. Tre ruoli, tre storie diverse, un solo volto valido per tutte: il texano che interpreta il texano, in una maniera talmente vera da valergli il premio Oscar, un simpatico e navigato operatore di borsa nella impietosa Wall Street e un agricoltore/astronauta che si lancia senza troppi pensieri nella missione della sua vita, lasciandosi alle spalle figli, fattoria e Madre Terra. Innanzi a tutto ciò, non possiamo che fare chapeau e augurarci che le sorti del cinema e quelle di Matthew continuino ad incrociarsi, nella speranza di veder aumentare esponenzialmente per più talenti la possibilità di partire da zero ed arrivare, con merito, all’ambita meta di fare cinema.

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