Mamma Netflix, dopo House of Cards, ha tirato fuori dal suo produttivo ventre un’altra serie televisiva degna di nota: Orange is The New Black. Tratta dalle letterarie memorie di Piper Kerman, Orange Is the New Black: My Year in a Women’s Prison, il telefilm narra le vicende realmente accadute alla stessa scrittrice, Piper, condannata a scontare quindici mesi al Litchfield, un carcere federale femminile, per aver trasportato una valigia piena di soldi di provenienza illecita per Alex Vause, una trafficante di droga internazionale e un tempo sua amante. La storia di Piper, benché avvincente e non priva di colpi di scena, è però solo la scusa per presentare e raccontare, puntata dopo puntata, la realtà di un carcere femminile e le storie delle sue detenute attraverso una serie di digressioni che ogni volta diventano story lines autoconclusive dell’episodio e, al contempo, storie parallele a quella madre che mostrano le fazioni e la realtà, nuda e cruda, di quel che accade in un penitenziario gineceo.
Arrivato negli Stati Uniti alla seconda stagione, Orange the New Black nei suoi primi 12 episodi è stato in grado fin da subito di delineare i tratti distintivi delle sue innumerevoli protagoniste, che all’interno di Litchfield sono aggregate in gruppi che hanno come fondamento la loro etnia. Bianche con bianche, latine con latine e nere con nere, le unioni in quel del penitenziario non sono di certo distanti dal concetto di banda, con tanto di gestione del territorio e traffici illeciti all’interno del limitato spazio di un carcere. Odi, amori, amicizie, bisogno incessante di affetto proveniente non solo dalla condizione di segregazione ma anche, e soprattutto, da vissuti non semplici che hanno portato le ragazze a dover scontare una pena: questi sono i sentimenti più quotati di una serie televisiva coraggiosa e interessante che, se con la prima stagione aveva comunque messo in moto un buon ingranaggio, anche di condanna sociale delle condizioni nelle carceri, con la seconda serie preme ancora di più l’acceleratore su questo punto e sugli abusi di potere non solo delle guardie, molto spesso anch’esse vittime di un sistema, ma proprio sulla speculazione politica che c’è intorno al sistema penitenziario americano.
Un telefilm coraggioso dunque, che molto spesso viene annoverato e plaudito solo per avere al suo interno delle omoerotiche relazioni, quando invece il motivo principe del suo successo, anche di critica, è da attribuire alla veridicità di ogni cosa che mostra – in un tripudio di errori e imperfezioni – che sottolineano la fragilità di alcune umanità e non solo di quelle colpevoli e per questo condannate. “Un errore giudiziario, uno sbaglio, una situazione estrema mostrano come sia facile finire in galera. Mostrano come chi si crede al sicuro, chi lascia le carceri alla loro oramai endemica disumanità, divori se stesso. Dallo stato delle carceri si comprende lo stato della democrazia di un paese: più le carceri sono disumane, più si sta distruggendo il diritto. La dignità delle carceri – questo è il passaggio fondamentale talvolta difficile da cogliere – non è un favore fatto ai criminali, ma è la vera costruzione della sicurezza di chi crede che non ci sia mondo più lontano dal proprio che quello. Entri per un micro reato ed esci criminale.” Così ha scritto Roberto Saviano proprio su Orange is the New Black, che quest’anno ha fatto incetta di premi ai Critics’ Choice Television Awards e che, finalmente, è possibile vedere, nella sua prima stagione, in Italia sul canale Streaming On Demand Infinity di Mediaset Premium.